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Donna tra le donne ·Reinterpretando la figura di Maria·

Osservatore Romano, 29 aprile 2016

Anne-Marie Pelletier:

L’umanità è associata in modo più intimo all’opera di salvezza attraverso la persona di una donna (cfr. Galati, 4, 4) e questo implica che le nostre teologie devono aprirsi decisamente alla realtà dell’“essere donna”. In un corpus evangelico che, si sa, è incredibilmente parsimonioso e discreto sulla persona della Vergine Maria, occorre fare riferimento al vangelo di Luca, precisamente al capitolo 23, versetti 19 e 51, dove due episodi del racconto dell’infanzia di Gesù — la visita dei pastori a Betlemme e il racconto su Gesù che rimane a Gerusalemme dopo la partenza dei suoi genitori — si concludono con l’affermazione che «Maria / sua madre, serbava tutte queste cose / parole (rèmata) meditandole nel suo cuore», con la duplice precisazione al verso 19 di un «serbava con cura» (sunetèrei) e di un lavoro della memoria sui rèmata meditati (sumbàllousa en te kardìa autès).

Questa breve osservazione ha una portata a priori modesta, in ogni caso meno immediatamente teologica delle menzioni giovannee della «madre di Gesù», corredate dal titolo solenne e inatteso di gynè, “donna”, che, nel racconto di Cana e in quello della Passione, hanno immediatamente una portata cristologica ed ecclesiologica. Le parole di Luca appaiono piuttosto come una discreta incursione nel registro segreto dei pensieri di Maria nascosti in Dio, nell’intimo del suo cuore. Così, per un breve istante il racconto di Luca varca il recinto segreto di un cuore di donna la cui vita è toccata, nella quotidianità dei suoi giorni, da un disegno di Dio esorbitante, che sconvolge la sua carne e che accompagna la storia del bambino nato dal suo seno.

Pertanto, il riferimento fatto qui al “cuore” fa intravedere che il discorso va oltre l’aneddoto dei “fioretti”, cosa che, tra l’altro, i due primi capitoli di Luca non sono affatto. È nota in effetti la densità di significato della parola “cuore” in antropologia biblica. Il cuore è il luogo della libertà, dunque della decisione, che comanda l’ascolto, il consenso a Dio o la chiusura alla sua Parola. Il cuore è anche chiamato all’esercizio di memoria delle opere di Dio, dei suoi comandamenti, delle sue promesse. Perciò la sua debolezza fa appello alla speranza di un cuore sul quale i comandamenti saranno iscritti, in Geremia, o più radicalmente, di un cuore nuovo, cuore di carne capace di palpitare d’amore, in Ezechiele. Allo stesso modo, la tematica del “serbare” è una pietra di paragone dell’alleanza e della fedeltà a cui essa impegna. Parlare dell’atteggiamento del cuore è dunque esprimere nel suo punto nevralgico la relazione con Dio.

Pur rispettando la grande sobrietà del racconto di Luca, occorre cogliere qualcosa dell’atteggiamento interiore di Maria sottolineato da Luca con parole molto semplici, ma cariche di un silenzio che dobbiamo interpretare correttamente. Alla luce del duplice versetto riportato qui, vorrei in particolare reinterrogare l’eccezionalità di Maria che l’episodio di Luca 11, 27 sembra chiamare in causa, e che paragona la beatitudine del ventre che ha portato Gesù a quella dei cuori che ascoltano (akùontes) e serbano (phulàssontes) la Parola di Dio. Il che porterà a proporre alla nostra riflessione alcuni pensieri su una qualità del femminile di cui la fedeltà/fede di Maria è una testimonianza eminente, che la Chiesa da lei maternamente generata deve a sua volta riconoscere e vivere.

Volendo passare dal vangelo di Luca a quello di Giovanni, possiamo immaginare che è l’apprendimento di questa fedeltà paziente a permettere a Maria di stare ai piedi della croce. Qui più che mai l’eloquenza dei commenti spirituali svanisce e concede a Maria una percezione sublime dell’evento, ben lontana dalla realtà desolata del patibolo del Golgota dove si consuma «l’amore fino alla fine» di Cristo. Il succedersi delle perplessità che avevano suscitato le sue domande (all’angelo: «Come avverrà questo?», e all’adolescente ritrovato: «Perché ci hai fatto questo?») confluisce in questa ora in cui tutti i segni si spengono, mentre si compie la misteriosa profezia di Simeone. Che cosa capiva Maria ai piedi della Croce, mentre ripercorreva nella sua memoria lacerata il cammino di quel figlio senza eguali? Chi può dirlo? Ed è poi importante forzare il segreto? Nella notte oscura del venerdì santo è possibile che il «mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» del figlio sia restato estraneo al cuore della madre? Ma a importare è solo ciò che attesta Giovanni: lei era lì, in piedi, sul calvario, alla portata degli occhi di Gesù. Si potrebbe allora anche immaginare qualcosa come l’ingresso di Maria nella nube della presenza divina, al tempo stesso oscura e luminosa: il dito sulla bocca.

Di fatto Maria non era sola sul Calvario. «Le donne che seguivano Gesù sin dalla Galilea» non lo avevano abbandonato come tutti gli altri. Anche nella nostra storia, Maria non è sola, contrariamente a un’immagine mitologica e tendenziosa («Sola tra tutte le donne, seppe piacere a Dio», Sedulius). Dobbiamo tenere presente che Maria, nel suo destino eccezionale, non è meno donna tra le donne. Teresa di Lisieux ha insistito su ciò sul suo letto di morte: «Non bisognerebbe dire di Lei cose inverosimili o che non si sanno». La stessa Teresa voleva che si dicesse: «viveva di fede come noi». Se la Vergine Maria è in stretta solidarietà con le donne del passato d’Israele, non lo è di meno con le donne di sempre e di ogni luogo. Credo, in effetti, che aiuti a percepire la capacità propriamente femminile di vivere l’oscuro, resistendo allo sconforto, superando l’evidenza della sconfitta, dunque senza abbandonare l’invisibile in cui la vita è invitta, dove la carne — per quanto sfigurata e decaduta — può sempre essere accolta, consolata, onorata. Una citazione per concludere: «tutti i viventi sono nel mio cuore. La locanda è vasta. Vi è perfino un letto e un pasto caldo per i criminali e i folli». Queste parole, che descrivono bene Teresa, potrebbero essere riferite altrettanto bene a Maria. Ebbene, sono le parole di un uomo, del poeta Christian Bobin. Mi piace questo confluire del maschile e del femminile. Credo che dobbiamo tenerlo presente nel nostro lavoro attuale. Ciò significa, nella fattispecie, che guardare e comprendere Maria è imparare la nostra umanità comune. E, per cominciare, chiaramente, è imparare a essere Chiesa, quella Chiesa che Maria riceve la vocazione di generare maternamente dalla bocca di Gesù sulla Croce. Possa tutta la Chiesa entrare nell’interiorità di questa fede di Maria che vede il mondo in Dio, serba una fiducia invincibile, qualunque sia la prova presente delle scadenze escatologiche.

di Anne-Marie Pelletier