Maschile e femminile dalla Genesi al Nuovo Testamento

Paru dans l’Osservatore Romano, le 2 novembre 2014

Anne-Marie Pelletier:

La nostra relazione con le Scritture non si esaurisce nel fatto che le leggiamo. Esse stesse, simmetricamente, hanno come finalità quella di “leggere” il loro lettore, di scoprirlo a se stesso, di immetterlo in un moto di conversione, quando accetta di porsi sotto la loro autorità. Nello stesso tempo, ci diventa manifesto che la potenza di senso del testo è direttamente proporzionale agli interrogativi che gli rivolge il suo lettore. Per rilasciare la Rivelazione di cui è portatore, il testo ha bisogno di essere aperto da un lettore solido. Intendiamo con questo un lettore che esiste come soggetto personale, radicato nel concreto della sua condizione e del suo tempo. E intendiamo anche un lettore che ha abbastanza fiducia da credere che le Scritture non vengano rovinate dagli interrogativi e dalle obiezioni che le nostre culture contemporanee in continua mutazione possono loro rivolgere.

Nelle nostre società occidentali, il campo dell’antropologia è oggi interessato da rilevanti processi di rimessa in discussione e revisione, che sembrano sovvertire senza appello le rappresentazioni bibliche. I dibattiti infuriano soprattutto intorno all’identità sessuata della condizione umana. La deriva generalizzata dei punti di riferimento a cui assistiamo scuote in modo del tutto particolare tale realtà. Sarebbe deplorevole limitarsi alla preoccupazione di fronte ai pericoli che la situazione comporta. Interrogando l’identità dei sessi, il nostro tempo permette di riportare la luce su una zona mantenuta accuratamente in ombra in molte società. Permette di identificare meglio un essenzialismo che rinchiude uomini e donne in una dissimmetria, giocando evidentemente a detrimento di queste ultime. E prendendo meglio le misure della violenza multiforme e immemoriale che pesa sulle donne, il nostro tempo apre la prospettiva di un progresso verso una maggiore giustizia. Ma, simultaneamente, ben presto appare che le risposte che si pretende di dare ai disordini denunciati fanno levare nuovi e temibili pericoli. In particolare, non c’è forse una nuova forma di violenza, subdola ed estrema, nel confondere, persino nel pretendere di cancellare, la differenza uomo-donna? Per rimediare alle ferite che colpiscono la relazione tra i sessi, siamo forse obbligati a dichiarare che la differenza è solo il prodotto artificioso delle culture, che essa può e deve dunque essere superata? Quali risorse attivare per superare lo scetticismo antropologico che impedisce di credere ancora all’incontro felice e duraturo tra un uomo e una donna?

Ecco altrettante domande da porre oggi nel faccia a faccia con il testo biblico. Non si tratta di cercare semplicemente in esso protezioni contro il mare grosso o fuochi di sbarramento contro evoluzioni che riteniamo pericolose. Un obiettivo più giusto sarebbe, ci pare, trasformare gli interrogativi del momento in trampolino per acquisire verità che non abbiamo ancora ascoltato nelle Scritture bibliche. In altre parole, occorre accettare di credere che le scosse attuali abbiano potenzialmente il potere di far sorgere rilievi nuovi in seno alla rivelazione biblica. In modo esemplare, a nostro parere, la questione uomo-donna risuona nella Bibbia con una ricchezza di senso che non abbiamo ancora valutato pienamente, ma che può appunto svilupparsi nel contesto presente. Le brevi riflessioni seguenti vorrebbero dar corpo a tale convinzione. La questione è evidentemente di piena attualità, dato che in diversi modi le nostre culture tendono a cancellare le frontiere, a sostituirle con continuità tra mondo della materia e mondo del vivente, e poi, in quest’ultimo, tra le diverse modalità del vivente. Così accade con le polemiche che oggi contestano l’idea che vi sarebbe una rottura essenziale tra condizione umana e condizione animale. Ma accade anche per le prospettive aperte dalla biochimica o da una robotica dalle ambizioni prometeiche. Non vi è dubbio che la pregnanza dello spirito scientifico nella nostra post-modernità sia un fattore di tali evoluzioni, se è vero che quanto caratterizza la scienza è proprio trasformare ciò che descrive oltrepassando il registro del singolare, e quindi cancellando le differenze. Ma tale confusione delle frontiere è evidentemente ipso factoconfusione e perdita delle identità, ivi compresa la divisione che articola l’umanità nel faccia a faccia del maschile e del femminile.

Indiscutibilmente, le Scritture bibliche contrastano tale logica. Ma ne abbiamo davvero potuto prendere coscienza prima che la psicoanalisi mettesse in guardia sul ruolo fondatore della separazione o che, all’inverso, il rifiuto diffuso delle differenze ci costringesse a interrogare con più attenzione il testo? Oggi abbiamo modo di vedere meglio che creazione e separazione sono eminentemente solidali, come mostrava già dagli anni Settanta il grande biblista francese Paul Beauchamp nel commentare il primo capitolo della Genesi. A partire da qui si chiarisce tutta una logica biblica profondamente diffidente nei confronti di ciò che dà risalto alla mescolanza, all’ibrido, che tende alla confusione e all’indistinzione. La convinzione, che si ritrova al principio di tanti aspetti della legislazione biblica, è che la mescolanza sia mortifera. Cancellare le frontiere riporta al caos originario, disfa la creazione. Verità rilevante che deve servire da bussola nei dibattiti odierni. Serve una differenza, uno scarto, perché possa sorgere la vita, cioè la relazione.

Ma, nello stesso tempo, il testo biblico prende atto del fatto che il mondo di relazioni che suscitano i gesti creatori di separazione è un mondo votato a vivere la prova della relazione. Incontrare, infatti, positivamente e felicemente l’altro è necessariamente una sfida. Con estrema finezza il testo della Genesi orchestra questa realtà, facendo sfilare, a partire dal racconto della trasgressione, i conflitti o le perversioni che sorgono tra uomo e donna, tra fratelli e, sul lungo periodo, tra comunità umane.

Per limitarsi alla relazione uomo-donna, si può rilevare una sottigliezza particolarmente eloquente nel nostro tempo, nel quale circola l’idea che uomini o donne si diventa solo attraverso l’imposizione di stereotipi culturali o addirittura, scherzano alcuni, per una scelta che ormai potrebbe essere questione personale di ognuno. Il testo biblico non dà sostegno né all’una né all’altra di queste prospettive, ma comporta comunque un’apertura molto suggestiva. Ricordiamo infatti che il primo capitolo della Genesi rievoca solennemente la creazione dell’umanità «a immagine di Dio». Ma lo fa in un versetto ( Genesi, 1, 27) in cui la lettera del testo non comporta ancora le parole uomo e donna. Vi si fa solo questione di maschio e di femmina. Così, occorre che la lettura prosegua fino al secondo racconto di creazione e alla misteriosa operazione chirurgica che, nel linguaggio del mito, farà sorgere un uomo e una donna esplicitamente designati in quanto tali ( Genesi, 2, 22). Senza tirare il testo biblico dalla parte di teorie che gli sono estranee, converremo che non è privo di interesse vedere la Scrittura prendere le distanze da un essenzialismo rigido, per dar da pensare la realtà di una elaborazione delle identità. Così, appare chiaro che la differenza tra i sessi posta nel primo racconto di creazione è solo una condizione preliminare, in attesa del contenuto di umanità che renderà singolari uomo e donna tra i viventi.

Allo stesso modo dovremmo rilevare l’incompletezza che caratterizza il primo faccia a faccia della coppia umana messo in scena nel secondo capitolo della Genesi: la parola che spunta in questo istante non riesce ancora a innestare la reciprocità di un vero dialogo. Proprio per questo, l’incontro dell’uomo e della donna secondo la Genesi ha potuto venire caratterizzato come un «progetto etico» (André Wénin), che Dio affida loro, perché insieme siano «immagine» e «somiglianza» di Colui che li crea. Simultaneamente il racconto della Genesi verifica quella verità che ci è divenuta familiare: cioè che si è veramente due solo in presenza di un terzo. Nel nostro caso, bisogna che lo scenario di creazione mantenga ed espliciti qui il riferimento al Creatore, che sta tra uomo e donna, affinché il loro incontro entri nella sua giustezza. Bisogna sottolineare che tutto ciò è detto senza dogmatismo, lungi dalle rigidità di un’argomentazione speculativa. La messa in opera di alcuni grandi principi fondatori di un’antropologia biblica si compie attraverso un discorso narrativo elastico, colorito, che mantiene un margine di enigma e di non detto. Se davvero l’umanità è a immagine del Deus absconditus, come potrebbe la sua identità non incorporare una parte incomprimibile di mistero?

Certo, Gesù viene al mondo in una carne maschile; nessuno può essere umano sfuggendo alla legge che vuole che lo sia come uomo o come donna. Ma, così facendo, non viene né a rivelare Dio come un maschio, né a porre la parte maschile dell’umanità in una posizione di autorità sovrastante, né a mettere fine a una differenza antropologica che fonda la nostra umanità. Fondamentalmente, viene a suscitare, come suo interlocutore faccia a faccia, quell’umanità ricostituita che è la Chiesa formata di uomini e di donne, alla quale il Vangelo in modo sorprendente dà per riferimento e modello una serie di figure di donne. Come Marta e Maria, come la vedova che mette tutto quanto possiede nel tesoro del Tempio, come la donna del racconto giovanneo che unge i piedi di Gesù prima della Passione, o ancora come le donne che restano sole ai piedi della Croce quando tutti se ne sono andati, e che saranno le prime ad accorrere al sepolcro. Come ancora Maria Maddalena, chiamata a essere apostolo degli apostoli. Come infine — segno più grandioso di ogni altro — la Vergine Maria, in cui si rivela la sconvolgente cooperazione fra Dio e l’umanità al principio dell’opera di salvezza. Altrettante realtà da scrutare e da accogliere per trovare le vie di una giustezza — e anche di una giustizia — della relazione fra i sessi, che rimane un compito attuale della Chiesa. Anne-Marie Pelletier